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20/07/2018
Sviluppo locale - Territorio e integrazione
- Osvaldo Cammarota


 
Il territorio può essere la risorsa
, se …: la res pubblica si esercita alla dimensione più prossima alle comunità amministrate; si pratica un approccio sistemico e multidisciplinare; si accumula e si organizza il capitale sociale territoriale. Se… il principio di integrazione non resta vuota retorica.
Pianificare, programmare, progettare. Sono attività che richiedono competenze diverse, ma tutte hanno uno scopo in comune: risolvere i problemi presenti e corrispondere ai bisogni futuri. I problemi presenti generano dal carico di questioni irrisolte nel passato e dai mutamenti in corso. I bisogni futuri sono difficili da interpretare. Gli approcci culturali e politici del secolo scorso non sono adeguati, l’oscillazione del pendolo tra “programmazioni bulgare” e “liberismo selvaggio” non ha prodotto soluzioni all’altezza dei problemi.
Nel dibattito e nella ricerca contemporanea la parola più ricorrente è “territorio, forse per evocare un’entità fisica, materiale, che bilanci la diffusa tendenza al virtuale, al teorico-astratto, all’economia di carta… ma il territorio è anch’esso rigato dal pendolo del secolo scorso, si fa fatica a concepirlo come risorsa, è più spesso sprecato come bene di consumo.
La risorsa territorio
Dall’esperienza di campo emerge una visione del territorio come “organismo produttore complesso”. La crescita dei valori fisici/materiali/misurabili risulta dipendere anche dal bene immateriale costituito dal capitale sociale territoriale, inteso come capacità di cooperazione e collaborazione tra i molteplici soggetti (istituzionali, sociali, economici, culturali, associativi, …) che lo abitano e sono espressione della società densa, complessa e… liquida del nostro tempo. Abbiamo imparato che il territorio è la risorsa e il capitale sociale è il lievito per la sua crescita, ma questa è solo una traccia di lavoro. In realtà il territorio è sfruttato oltre misura, è considerato come bene di consumo, non di produzione; si trascura la semplice realtà che non è riproducibile.
L’uso che si fa del territorio risponde a logiche settoriali e particolaristiche, quasi mai rispettoso della geomorfologia, delle identità dei luoghi, delle vocazioni di sviluppo, dei saperi millenari in esso depositati nel tempo. È banale dirlo, ma tutti possono osservare le conseguenze: terremoti e alluvioni devastanti; sottoutilizzo delle potenzialità di sviluppo; frattura dei legami sociali costruiti nel tempo da culture produttive, tradizioni, identità esclusive riconducibili alla tipicità dei luoghi. Accade così che tanti territori del nostro paese, specialmente nel Meridione, sono patrimoni immensi che non producono ricchezza né benessere sociale commisurati al loro valore.
Ciò che accade è in stridente contraddizione con i principi ispiratori della res publica ai quali richiama la nostra Costituzione a cui, tutti e sempre, si richiamano. Perché accade questo? I cambiamenti intervenuti a fine secolo scorso (globalizzazione, crisi del fordismo, crisi degli Stati-nazione, finanziarizzazione dell’economia, …) hanno prodotto frantumazione e frammentazione, nella Società e nello Stato. Gli effetti di tali mutamenti sono visibili nella dis-integrazione delle politiche e nel "groviglio" di norme, procedure, apparati, settorialismi, ... che si ostacolano reciprocamente e accrescono complicazioni alla complessità. Per tali ragioni il territorio assume centralità nei processi di sviluppo. Il territorio nella sua unitarietà, è il luogo dove precipitano e sono concretamente leggibili gli effetti dei mutamenti in atto. Per ricostruire i frammenti occorre raccoglierli laddove sono depositati … Perciò il territorio va trattato come “soggetto produttore” e non come “bene di consumo”.
L’integrazione che serve
Lo scenario sinteticamente richiamato, induce a riflettere su una integrazione adeguata alla complessità del contesto. Le culture comunitarie di coesione e sviluppo richiedono una integrazione che, coniugata al principio di sussidiarietà, al processo di decentramento amministrativo, al principio di Partecipazione e al raccomandato approccio bottom-up, si profila come azione tesa a promuovere la coesione/organizzazione delle risorse locali e sovralocali intorno a progetti di crescita fondati sugli interessi e i bisogni delle comunità amministrate. Si configura un concetto di integrazione che rinvia alla necessità di costruire reti corte di coesione locale e reti lunghe di relazione del locale con il sovralocale e il globale.  Nella prassi - non quelle buone naturalmente - si scopre che la grande acqua del sostegno comunitario viene diffusa in mille rivoli e, man mano che ci si avvicina al territorio, si articola sempre più in assi, misure, azioni, sub-azioni, … fino a diventare gocce di pioggia che dipendono da soggetti e poteri diversi, tanto diversi da precludere in nuce il concetto stesso di integrazione. Vi è, chiaramente, una percezione non sufficientemente condivisa del principio di integrazione.
Fare integrazione è il modo per valorizzare il territorio come risorsa. È un percorso di ricerca e di azione dentro la complessità; è la pratica continua di un approccio di tipo sistemico-evolutivo; è l’instancabile viaggio tra teorie e prassi nel reticolo di connessioni e interdipendenze che influiscono nei processi di sviluppo.
Qualcuno ha paragonato il nostro mestiere alle fatiche di Sisifo. Ne vale la pena? Certamente sì per chi voglia tenere vivo il cervello e per chi coltivi idealità di più ampia suggestione. Le esperienze di riorganizzazione della democrazia a partire dall'economia e dal territorio, mi sembrano le uniche su cui vale la pena spendersi per contrastare il neocentralismo delle scelte e l'anarchia del paleocapitalismo, principali cause di conflitti e di irrisoluzione dei problemi passati, futuri e… presenti.
 
             
         
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